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MEMORIE DI GUERRA
di Salvatore Marino IK1ATK

La mia prima esperienza di radiotelegrafista.

Il
giorno 18 aprile 1937, col grado di sergente d’Artiglieria fui mandato in Etiopia  per le operazioni di polizia coloniale, la sede di destinazione fu Gondar, “ultimo Presidio ad essere stato sopraffatto dopo sette mesi d’assedio durante la seconda guerra mondiale”. In Artiglieria ero già specialista per le trasmissioni, che a quell’epoca avvenivano con  bandiere semplici, (erano bandiere piccole, che, tenute in orizzontale con le braccia aperte; abbassandone una si indicava un punto ed, abbassandole entrambe una linea) ed a lampo di colore (queste erano fatte con doppio strato di stoffa; la parte di sotto era bianca e quella di sopra, tagliata a strisce e collegate da elastici era rossa; tirando le estremità della bandiera stessa appariva la zona bianca che, con apertura breve indicava un punto e, con apertura più lunga una linea) e con eliografo che, di giorno funzionava con i raggi del sole e di notte con energia elettrica fornita da una pila a secco; è naturale che tutte le trasmissioni avvenivano con l’alfabeto Morse. Con gli aerei si comunicava per mezzo di grossi teli colorati e con il relativo codice.
Il 17 novembre 1938, dopo un breve corso presso la 22^  Compagnia marconisti di Gondar, in seguito ad una prova d’esame fui scelto  tra tutti gli allievi, alcuni dei quali erano presenti all’insegnamento molto tempo prima del mio arrivo. Nominato radiotelegrafista, fui incaricato dal comandante, Capitano Guido Festa, a scegliere tra i frequentatori del corso un allievo di mio gradimento come secondo operatore, di ritirare presso il magazzino una stazione radio R4, con le relative batterie a secco, e di prepararmi per la partenza che sarebbe avvenuta il lunedì successivo, aggregandomi ad una colonna di autocarri per andare a sostituire un collega nel Presidio di Celgà. Con la radio mi fu dato solo il tasto verticale (attrezzo per trasmettere con segnali Morse) perché, essendo la stessa di piccola potenza, non sarebbe stato possibile effettuare i collegamenti dal Presidio dove ero destinato con Gondar;  “in  telegrafia, con radio delle stesse caratteristiche, si riesce a coprire quasi il doppio della distanza rispetto alla fonia”.
Bisogna precisare che  l’Etiopia non era stata mai occupata integralmente ed alcune zone erano impenetrabili, e se a volte si facevano dei tentativi, i militari che ne prendevano parte; quasi sempre si trattava di un Battaglione di ascari (soldati abissini) comandati da ufficiali e sottufficiali italiani, tornavano alla sede con grandi perdite.


Celgà era un Presidio completamente isolato e gli unici mezzi di collegamento erano la radio ed un fidato corriere abissino che, periodicamente, veniva mandato a piedi a Gondar per portare e ritirare la posta. A causa delle piogge e del pericolo al quale si andava incontro, per colpa di guerriglieri locali, veniva rifornito di viveri ed altre necessità una sola volta all’anno, alcuni generi, come i medicinali, ci venivano lanciati da un aereo Caproni 33; si era, quindi, costretti ad organizzare colonne con grossa scorta armata. La strada che portava a Celgà era costituita da una pista e si poteva percorrere solo nei mesi estivi. Di quel trasferimento  conservo un ricordo che non dimenticherò mai.
Per raggiungere Celgà ci volevano due giorni. Nei miei appunti trovo che era il 21 novembre 1938. La colonna  che trasportava viveri ed altro  e della quale facevo parte era partita al mattino; a tarda sera  eravamo giunti a metà strada, era ormai quasi notte, cosi, dopo i dovuti accorgimenti di difesa da parte della scorta armata, facemmo sosta, mi fu dato l’ordine di impiantare la stazione che, come ho accennato, era di piccola potenza e veniva alimentata da batterie anodiche a secco. L’ufficiale addetto mi portò un messaggio da trasmettere, era la prima volta che mi accingevo a farlo ed il cuore batteva forte; è naturale che il mio corrispondente era continuamente in ascolto sulla frequenza assegnataci; ebbene, timidamente, mi misi al tasto e feci la chiamata, dopo qualche istante giunse la risposta;  al sentire quel segnale per la prima volta, mentre mi trovavo in una fitta boscaglia, nel silenzio delle ore notturne, mi sembrò di aver toccato il cielo con un dito. Il quadro di quella notte stellata mi appare ancora nitido d’avanti agli occhi. Fu questa la mia prima, meravigliosa, esperienza di radiotelegrafista. Il giorno dopo raggiungemmo Celgà e diedi il cambio al collega che era lì già da qualche mese, e che rientrò a Gondar con la stessa colonna.
La guarnigione esistente nel fortino di Celgà, era costituita, in maggioranza, da artiglieri padri di famiglia, magari numerose, che, dato il periodo di grande miseria che attraversava l’Italia, erano venuti in Etiopia per  sbarcare il lunario, difatti, la loro paga era di lire cinque giornaliere ed, inoltre, le loro famiglie in Italia percepivano il sussidio, cosa che gli permetteva di condurre una vita più agiata.

Grazie alla mia specializzazione di radiotelegrafista mi rimaneva molto tempo disponibile perché, oltre agli appuntamenti radio, non avevo nessun altro impegno. Possedevo una macchina fotografica 6x9 ed ogni tanto facevo qualche fotografia che, per mezzo del corriere mandavo a Gondar per farle sviluppare, cosa che richiedeva molto tempo e, visto il grande desiderio da parte di tutti di inviarne qualcuna a casa, mi attrezzai per svilupparle e stamparle, in modo molto elementare, personalmente; rivestii la mia baracca, che era fatta di paglia, con stoffa nera; a mezzo del corriere mi feci acquistare un torchietto, acido per sviluppo, acido per fissaggio, bacinelle, carta per la stampa e parecchi rotoli di pellicole; con le pile esaurite della radio feci un impianto per luce rossa e,  dopo avere scattato le fotografie, sviluppavo il rotolo, tagliavo i negativi e, uno alla volta, li mettevo nel torchietto; ci mettevo la carta da stampa sopra ed usavo una torcia elettrica per dargli la luce necessaria. All’inizio le cose erano abbastanza difficili per stabilire il tempo di illuminazione giusto per la stampa, ma una volta presaci la mano era un divertimento. Le richieste da parte dei soldati erano tante e, spesse volte, passavo alcune ore della notte a stampare fotografie; il lavoro più difficile era quello del lavaggio, che, non avendo acqua corrente, diventava molto laborioso, difatti, a volte, qualche fotografia mi rimaneva macchiata di acido. L’impresa, in ogni modo, fu molto fortunata perché mi permise di avere un buon guadagno, pur facendo pagare, le fotografie, molto meno di quello che prendeva il fotografo.

 


Il 25 gennaio 1940, dopo più di un anno di permanenza a Celgà, rientrai a Gondar, dove, per un breve periodo feci servizio al Centro Radio e frequentai un corso che mi diede la nomina a caporadiotelegrafista, cosa che mi fu molto gradita perché dalle lire 2,32 giornaliere che prendevo come specializzazione di radiotelegrafista passai a lire 5,668 per la qualifica superiore, “all’epoca era una buona somma”.
Il 20 giugno 1940 fui assegnato, come capo centro radio a Bahir Dar, una base logistica che si trovava a sud del Lago Tana, all’origine del Nilo Azzurro. Avevo una  stazione usata per il traffico con Gondar, che smaltiva anche i telegrammi del locale Ufficio Postale, una per collegare i presidi interni ed una per avvistamento velivoli; eravamo in piena guerra. La stazione addetta all’avvistamento velivoli l’avevo impiantata in un rifugio sulla riva del Lago, questa era collegata, a mezzo di una linea telefonica da campo, con la linea di volo del locale aeroporto, dove erano sempre pronti due piloti con i relativi aerei da caccia CR 42. Quando, grazie alla rete d’avvistamento, veniva segnalato che aerei nemici si dirigevano verso i Presidi interni, il radiotelegrafista addetto avvertiva i due piloti, i quali decollavano subito per andare a portare la loro difesa, cosa che non sempre andava a buon fine. 
Il 29 aprile 1941 fummo costretti ad evacuare da Bahir Dar, le cose andavano verso il peggio, e rientrammo a Gondar.
L’11 giugno del 1941 fui assegnato al Presidio di Amba Devà, all’osservatorio, nella cinta fortificata di Gondar con una stazione radio da 15 Watt che veniva alimentata con batterie a secco in ricezione, mentre in trasmissione veniva usato un generatore a pedale. Il mio cuore gioisce al pensare che, grazie alla mia 15 Watt ed alla grande invenzione del nostro beneamato Marconi, molte persone riuscirono a mettersi in salvo, perché gli aerei inglesi che venivano a bombardare Gondar passavano sempre sulla mia postazione, che era nella parte più alta. Esisteva, anche qui, una rete di avvistamento velivoli, ne ricordo ancora i nominativi; il mio era XMV, la stazione che era a Gondar XMX; quando giungevano gli aerei invitavo il mio aiutante, che si chiamava Bruno, a pedalare e davo la notizia degli aerei che si dirigevano su Gondar; dalla mia postazione riuscivo a vedere tutto, ed era con gioia che, dopo qualche istante, sentivo le sirene fischiare, dando modo a tutti di mettersi al sicuro nei rifugi. Da parte nostra avevamo una scarsa difesa; solo una mitragliatrice quadrinata, i nostri moschetti ed un aereo da caccia CR 42 che quando decollava aveva le munizioni contate ed era impotente contro gli aerei Flaying fortress “fortezze volanti” che venivano a bombardare Gondar. Però, una volta, con l’arrivo degli aerei, le cose cambiarono; ricordo che era un tardo, nuvoloso pomeriggio, sentivo degli aerei che si avvicinavano ma non li vedevo, e, come al solito, dissi a Bruno: pedala! Chiamai XMX e comunicai: Attenzione! Aerei nemici si dirigono su di voi; mi fu chiesto quanti erano, andai fuori ed a stento riuscii a vedere che erano in cinque, e manipolai: cinque! cinque! Mi fu chiesto il tipo; andai ancora fuori e notai che erano cacciabombardieri, trasmisi ancora: cacciabombardieri! cacciabombardieri! Ma ormai gli aerei erano sulla nostra postazione ed, al contrario di tutte le volte precedenti, incominciarono a scaricare il loro carico di bombe su di noi; ci buttammo a pancia a terra e, alla fine del bombardamento, con meraviglia, ci accorgemmo che eravamo rimasti illesi; penso che, grazie alla nostra postazione, che si trovava nella parte più alta della collina, le bombe, nell’avvicinarsi al suolo ed incontrando maggiore resistenza dell’aria, furono deviate tutte intorno alla collina stessa.

Ormai eravamo accerchiati  da quasi sette mesi e mancava tutto. Alcuni giorni prima del 27 novembre 1941, giorno della caduta di Gondar; a causa della cattiva nutrizione, si mangiava una quantità scarsa di riso con la buccia, qualche pugno d’orzo abbrustolito, quando si riusciva ad averlo da qualche ascaro (soldato abissino) che andava a rubarlo nei campi fuori della nostra postazione, e finocchi selvatici; fui preso da un forte attacco di appendicite con peritonite. Dopo sette giorni di atroci sofferenze, fui caricato su una barella usata da otto persone che si davano il cambio, e, dopo alcune ore di mulattiera, sotto la minaccia di un aereo nemico che solcava il cielo; “si vede che fotografava il suolo per preparare l’offensiva”; ricordo che tutte le volte che passava sulle nostre teste, i militari adagiavano la barella a terra ed andavano a ripararsi dietro qualche grosso sasso. Io rimanevo lì ad osservare l’aereo e mi aspettavo  mi dessero una mitragliata, ma per fortuna non fu cosi. Raggiungemmo la camionale  e fui caricato su un automezzo di passaggio che mi portò in Ospedale, dove, a causa del troppo tempo trascorso dal mio attacco di appendicite, non fu possibile operarmi. Era il 4 novembre 1941. Il professor Maselli (ne ricordo il nome), a seguito mia insistenza di operarmi, a causa dei forti dolori che mi affliggevano,  mi disse le seguenti, testuali parole: “non sono un macellaio, metterti le mani addosso ora, vorrebbe dire mandarti all’altro mondo, dovevi farti ricoverare prima”. Dal reparto chirurgia, dove ero stato ospitato, fui trasferito al reparto medicina e sottoposto ad una serie di punture per mitigare l’infiammazione intestinale, prima di procedere all’intervento. Dopo alcuni giorni dal mio ricovero. Gondar fu sopraffatta dalle preponderanti forze nemiche, che erano composte di soldati di numerose nazionalità; indiani, senegalesi, australiani, neozelandesi, ecc…. ed io, anche se non ero affatto guarito ed in condizioni di salute disastrose, dovute all’infiammazione intestinale ancora esistente, per far posto ai soldati nemici feriti, fui inviato nel campo di concentramento provvisorio del Castello di Fasilides in Gondar, era il 30 novembre 1941. Tutto ciò che avevo, compreso un grosso patrimonio di fotografie, tra le quali ve ne erano molte che mostravano usi e costumi abissini, rimase in prima linea. Ma, per fortuna, oggi sono qui, maresciallo in pensione, all’età di quasi 90 anni a raccontare queste cose. Non è meraviglioso?

Il mio battesimo del fuoco.

Il giorno 5 ottobre 1941 mi trovavo in una postazione della cinta fortificata di Gondar, allora Africa Orientale Italiana, che era già accerchiata da circa 6 mesi, il mio incarico era marconista ed avevo una stazione radio da 15 Watt. La mia postazione era un osservatorio nella parte più alta della collina, denominata  “Amba Devà”.
Nel pomeriggio di quel giorno, ricevetti un telegramma dal comando della  22^ compagnia marconisti che mi ordinava di prepararmi per partire,  il giorno dopo, con la mia stazione, unitamente al mio aiutante che si chiamava Bruno, senza specificarmi il motivo,  e di raggiungere un reparto d’Artiglieria che si trovava sulla strada camionale. Mi furono forniti due muletti a basto per il trasporto della  stazione  e, come viveri per 3 giorni, ci furono dati alcuni cucchiai di farina di ceci ed una piccola quantità di tè e zucchero ciascuno, dicendoci che avremmo trovato qualche altra cosa da mangiare al reparto d’Artiglieria,  nostra prima tappa.
Al mattino del 6 ottobre 1941, dopo aver caricato il tutto sui muletti c’incamminammo, a piedi,  lungo la discesa. Per giungere sulla strada  bisognava percorrere alcune ore di mulattiera. Nel tardo pomeriggio arrivammo al reparto d’Artiglieria, dove ci fu riferito  che non avevano viveri da darci e, come ricovero per passare la notte, ci fu indicata una nuda baracca con poca paglia sparsa sul selciato. Eravamo stanchi, così, riparati da una coperta che avevamo con noi, ci buttammo su quell’acciottolato e ci addormentammo. Il mattino dopo, sempre senza conoscere la destinazione, fummo accodati ad una colonna e c’incamminammo lungo la strada. Nel pomeriggio giungemmo alla sede di un reparto del Genio, vidi a poca distanza una forgia accesa, dissi a Bruno di prendere le nostre gavette e di andare a cuocere quei pochi cucchiai di farina di ceci che ci avevano dato; come risposta mi fu detto: “se vuole la sua la cuocio tutta, io preferisco conservarmene la metà”;  gli dissi: siamo qui che non conosciamo il nostro destino e non sappiamo quale fine potranno fare quei pochi viveri che ci hanno dato e noi stessi; comunque, fanne solo la metà. Eravamo fermi, mentre continuava l’assembramento di altre forze, e seppi, soltanto durante quest’attesa, che eravamo destinati a fare una puntata offensiva su Amba Gheorghis, dove si trovava un Presidio nemico. Fui chiamato dall’ufficiale d’ordinanza e mi fu spiegato quale era il mio compito. La colonna era costituita da un Battaglione d’assalto, un Battaglione di rincalzo e da una batteria d’artiglieria con cannoni da 127, che era schierata a poca distanza dall’obiettivo che dovevamo raggiungere. Questi reparti erano stati recuperati dalle postazioni della cinta fortificata di Gondar che, per tre giorni, rimase quasi sguarnita. Io con la mia stazione radio ero destinato al seguito del Colonnello Liuzzo, comandante della colonna. Con me erano collegate, una stazione radio installata presso la batteria d’Artiglieria ed una col battaglione di rincalzo. Mi fu data la frequenza ed i nominativi. “Penso che questa puntata offensiva nelle linee nemiche fu organizzata  a scopo di propaganda; perché non ne eravamo in grado, infatti, qualche giorno dopo si seppe che, da parte dell’allora Governo italiano  ci furono commenti, come: “i gondarini, anche se scalzi ed affamati, hanno fatto incursione nelle linee nemiche”. Era ormai tarda sera e ci venne dato l’ordine di iniziare la marcia; io ero, naturalmente, in testa alla colonna, al seguito del Comandante e di un gruppo di ufficiali, la strada era tetra e tortuosa ed ogni tanto ci veniva ordinato di spostarci a destra o a sinistra per paura che il centro della strada stessa fosse minato. Dopo aver camminato per alcune ore; eravamo forse a poca distanza dalla méta, ci fecero fare sosta perché dovevamo trovarci all’alba sul posto. Ricordo che la carreggiata era umida ed anche i prati adiacenti la strada stessa erano bagnati dalla rugiata della notte, l’unico posto asciutto, in apparenza, era un mucchio di brecciame pieno di angoli taglienti, era quello che si ricavava una volta rompendo grossi sassi con una mazzetta di ferro per pavimentare le strade, ci stesi sopra la mia coperta e, dopo pochi minuti, a causa della eccessiva stanchezza fui preso da un sonno profondo; non sò quanto tempo avevo dormito, forse un ora,due, e quando fui svegliato per proseguire il cammino, mi sembrò di aver dormito per una notte intera. Sempre con precauzioni di difesa, riprendemmo la marcia e giungemmo nei pressi di Amba Gheorghis, dove, nella vallata a destra si vedeva la postazione nemica, mentre a sinistra della strada c’èra una scarpata di alcuni metri. Mi fu ordinato di salire quel pendio e di raggiungere la sommità, dove c’èra un avvallamento, e di piantare lì la mia stazione in attesa di ordini. Incominciai la salita con i due muletti ed il loro carico e con Bruno, ma giunti a metà fummo attaccati da un improvviso, spaventoso mitragliamento e fucileria; e pensare che fino a quel momento non avevamo subito nessun disturbo; si vede che ci avevano aspettati al varco; le pallottole fischiavano in grande quantità, e ci fu un fuggi fuggi, pure io e Bruno, per spirito di conservazione, cercammo riparo dietro i muletti, ma poi pensai che era necessario impiantare la stazione e, sfidando il pericolo, continuai la salita, raggiunsi l’avvallamento e predisposi la radio. Dopo qualche minuto venne l’ufficiale d’ordinanza e mi portò un telegramma che chiedeva l’intervento dell’Artiglieria, accesi l’apparato e dissi a Bruno di pedalare, “la stazione in trasmissione veniva alimentata da un generatore a pedale”  ma, con mia sorpresa, vidi che la dinamo non dava corrente, e fu con grande fortuna che, ricordandomi di ciò che mi avevano insegnato al corso; presi due pezzi di filo di rame, li collegai alla batteria a secco e la eccitai; riuscii a farlo in  pochsissimo tempo; trasmisi il messaggio e fu con grande gioia che, dopo qualche istante, vidi arrivare sulla postazione nemica, i proiettili sparati dai nostri cannoni, che causarono la  fuga di tutti quelli che la componevano e l’arresto del loro mitragliamento. Mi fecero trasmettere altri messaggi che chiedevano l’allungamento del tiro, e, dopo che il nemico era in fuga partì l’assalto del nostro Battaglione, che, giunto sul posto fece scoppiare una riserva di munizioni, razziò alcuni capi di bestiame, dei quali avevamo estremo bisogno e, per non correre rischio, incominciò subito il ripiegamento. Ormai l’obiettivo prefisso era stato raggiunto, ed ora non ci rimaneva che cercare di tornare a casa con il  minor numero di perdite, è naturale che le truppe nemiche c’inseguivano. Io ero rimasto nella mia postazione ed attendevo ordini che non arrivavano mai, e venni a trovarmi  tra il fuoco della nostra retroguardia e quello del nemico che ci correva dietro, le pallottole fischiavano sulle nostre teste, mi vedevo in pericolo, così dissi a Bruno: si vede che si sono dimenticati di noi, spiantiamo! Cosa che facemmo, ma, appena caricata la stazione sui muletti, ecco giungere l’Ufficiale d’ordinanza con un telegramma da trasmettere all’artiglieria; il quale diceva:  “ore 8,30 tirate su Ghevescià et rotabile” che era la postazione dove ero io, guardai l’orologio e vidi che erano già  le 8,10, feci presente all’Ufficiale che rimaneva  pochissimo tempo e che avrei corso il rischio di farmi tirare i proiettili addosso, mi replicò di fare alla svelta e di portargli  la conferma dell’avvenuta trasmissione. In tutta fretta reimpiantai la stazione ed inaspettamente mi accorsi che questa volta era il ricevitore a non funzionare, non so se ciò fu causato dalla fretta o dalla vetustà della mia 15 Watts, ma non mi persi di coraggio, dissi a Bruno di pedalare, e lanciai: “Attenzione! attenzione! Mio ricevitore non funziona, trasmetto messaggio; ore 8,30 tirate su Ghevescià et rotabile”, lo ripetei per tre volte e poi spensi tutto. Sempre con premura, ricaricammo il tutto sui muletti, raccolsi il mio moschetto, e dissi a Bruno di raccogliere il tascapane dove vi era la rimanenza di quei pochi viveri che ci avevano dato e di seguirmi, non nascondo che la paura che il nemico ci arrivasse addosso era tanta, ed anche per questo mi precipitai di corsa  per la discesa; raggiunta la rotabile mi avvicinai al Colonnello Liuzzo, che era in compagnia dell’Ufficiale d’ordinanza, e fu proprio in quel momento che partì il primo colpo di Artiglieria, l’ufficiale guardò l’orolgio ed esclamò: che puntualità! Erano le ore 8,30 precise. A quest’affermazione il Colonnello andò sulle furie dicendo che l’ufficiale non aveva capito nulla; difatti era successo che, quando il Colonnello aveva dettato il telegramma, aveva detto: tra mezz’ora tirate su Ghevescià et rotabile, ma intendeva dire mezz’ora dopo l’avvenuta trasmissione del telegramma stesso, in questo modo avremmo avuto il tempo di allontanarci dalla zona che doveva essere colpita, ma l’ufficiale, alla parola “tra mezz’ora” guardò l’orologio, erano le otto, e scrisse ore 8,30, poi impiegò circa 10 minuti per venire da me; quindi, il telegramma venne trasmesso alle 8,15, in questo modo il cannoneggiamento fu anticipato di un quarto d’ora. I proiettili, per fortuna, cadevano tra la colonna che era sulla strada ed i fiancheggiatori. Ero esterrefatto e molto preoccupato, perché mi sembrava che la colpa fosse mia; anche se, a testimonianza della mia incolpevolezza, conservavo l’originale del telegramma. Intanto Bruno con i muletti mi aveva raggiunto ed io dissi al Colonnello che se voleva avrei potuto impiantare la stazione radio e dare il cessate il fuoco all’artiglieria, ma mi fu risposto di andare avanti per la strada e stare attento; in caso fossero venuti gli aerei nemici a bombardarci, cosa che ci aspettavamo, di mettere in salvo la stazione radio, e mandò un Ufficiale, di corsa, a dorso di un muletto, a dire all’artiglieria, che non era distante, di sospendere il fuoco, cosa che, con mio grande sollievo, avvenne dopo qualche minuto,  Lungo la strada, prima di raggiungere il reparto d’Artiglieria, fui sorpassato da una macchina con a bordo l’ufficiale addetto ai collegamenti, che, gridando mi disse: “Marino! Ti ho sentito dalla prima nota fino all’ultima, sei stato un campanello”, (era questo un gèrgo che si usava nel campo della telegrafia per dire che si trasmetteva senza fare errori), ed aggiunse: “tieni presente che, se per questa operazione  ci saranno delle ricompense, la prima dev’essere tua”. Dopo poco tempo avvenne la caduta di Gondar e la mia ricompensa se ne andò in fumo.
Giunti al reparto d’ Artiglieria, dissi a Bruno di tirar fuori dal tascapane la rimanenza della farina di ceci, lo zucchero ed il tè per far fuori tutto, tanto il giorno dopo saremmo rientrati alla sede in Amba Devà, ma con sorpresa mi fu detto che per la fretta il tascapane, con le gavette e tutto il resto, era rimasto su Amba Ghevescià, dove avevamo impiantata la stazione. Con la fame che avevamo questo non ci voleva. Per fortuna riuscimmo a recuperare qualche pezzo di galletta ed un po’ di tè dai cucinieri, che ci permise di accontentare un po’ lo stomaco. Il giorno dopo intraprendemmo la mulattiera e rientrammo alla sede di Amba Dev
 Diano Marina, 14 giugno 2003 Salvatore Marino. 

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